Il vello d’oro:
dal mito alla realtà

di Francesco M. Cardarelli
Primo Ricercatore del CNR

Gli antichi tesori provenienti dalla Georgia, con le suggestioni di Medea, di Giasone e degli Argonauti, risplendono in mostra ai Mercati di Traiano e nel catalogo degli Editori Palombi

particolare tratto dall'invito alla mostra
La mostra Il vello d’oro. Antichi tesori della Georgia è esposta fino al 5 febbraio 2012 a Roma, presso i Mercati di Traiano – Museo dei Fori Imperiali.
La mostra è aperta dal martedì alla domenica dalle ore 9 alle 19 (la biglietteria chiude alle 18). Il biglietto intero costa 11 euro, quello ridotto 9. Per informazioni, telefonare al numero 060608 (tutti i giorni dalle 9 alle 21).
Sito web

Copertina del catalogo della 
mostra
Il catalogo della mostra Il vello d’oro. Antichi tesori della Georgia, a cura di Tiziana D’Acchille, è pubblicato da Palombi Editori (Roma, 2011, 24 euro).
La bellissima testa di ariete in ametista campeggia sulla copertina del catalogo: posta su una placca d’oro tempestata di almandino e turchese, la piccola scultura adorna una meravigliosa collana d’oro con unguentario risalente al II secolo d.C., rinvenuta ad Armaziskhevi, a nord di Tbilisi, la capitale della Georgia. Il catalogo – raffinato anche dal punto di vista estetico, in linea con lo stile, sempre molto curato, dei libri pubblicati dagli Editori Palombi nella ormai quasi centenaria storia della loro attività – fa da corredo a una delle mostre più emozionanti attualmente in programma a Roma: Il vello d’oro. Antichi tesori della Georgia, esposta nella suggestiva cornice del Museo dei Fori Imperiali ai Mercati di Traiano fino al prossimo 5 febbraio.
La mostra ci proietta davvero Alle origini della cultura occidentale, secondo il titolo del saggio di apertura di Tiziana D’Acchille (pp. 21-27), curatrice dell’esposizione e del catalogo, docente all’Accademia di Belle Arti di Roma. Le 185 opere esposte, gioielli e altri manufatti in oro, argento, bronzo e pietre preziose, provengono dagli scavi archeologici condotti in diverse località del territorio della Georgia e coprono un lunghissimo arco temporale, dal III millennio a.C. al IV secolo della nostra era. I tesori, conservati nel Museo Nazionale Georgiano, rappresentano il “biglietto da visita” con cui la giovane repubblica post-sovietica (ha riacquistato l’indipendenza nel 1991) intende riaffermare l’importanza della storia e delle civiltà plurimillenarie del proprio Paese, nell’auspicio di una prossima «integrazione della Georgia nella grande e comune famiglia europea», secondo le parole del ministro della Cultura, Nikoloz Rurua. Si tratterebbe, in fondo, di una sorta di ritorno al passato, se è vero che per i Greci – come si legge, per esempio, nel Fedone – il mondo conosciuto era compreso tra le Colonne d’Eracle e la Colchide, regione compresa tra le sponde orientali del Mar Nero e il Caucaso, corrispondente alla parte occidentale dell’odierna Georgia (mentre la parte orientale era detta Iberia): proprio confutando tale concezione, Socrate nel citato dialogo platonico racconta al pitagoreo Simmia una «favola», in base alla quale il bacino del Mediterraneo è solo una delle cavità sparse sulla superficie della terra, che si presenta, invece, come una sfera policroma a chi la guardi dall’alto, dallo spazio celeste (Fedone 108-109). La Colchide è associata indelebilmente al mito del vello d’oro, che, non a caso, dà il titolo alla mostra, quindi alle storie di Giasone, degli Argonauti e di Medea: un mito antichissimo, ricordato già nell’Odissea, che costituirà poi il soggetto di uno dei maggiori poemi epici dell’antichità, le Argonautiche, scritte da Apollonio Rodio nel III secolo avanti Cristo. Vi si narra l’avventuroso viaggio compiuto sulla nave Argo dagli uomini più valorosi dell’Ellade sotto la guida di Giasone, al quale il suo re, Pelia di Iolco, aveva ordinato di conquistare il vello d’oro, posseduto da Eeta, il re dei Colchi figlio di Helios, il Sole. Il vello d’oro apparteneva all’ariete con cui Nefele aveva salvato dall’altare sacrificale di Zeus i figli Frisso ed Elle, facendoli trasportare dall’animale in volo «attraverso il cielo oltre la terra e il mare», come racconta la Biblioteca di Apollodoro, grande enciclopedia dei miti greci redatta nel II-III secolo d.C. (I 9,1); Elle, scivolata in mare, era morta, dando il nome all’Ellesponto (etimologicamente ‘il mare di Elle’, cioè lo Stretto dei Dardanelli che congiunge il Mar Egeo al Mar di Marmara e quindi al Mar Nero), mentre Frisso, giunto incolume in Colchide presso il re Eeta, aveva ricevuto da questi in sposa la figlia Calciope e aveva sacrificato a Zeus l’ariete, donandone il vello d’oro al suocero, che lo aveva inchiodato a una quercia in un bosco sacro ad Ares, protetto da un serpente che non dormiva mai. Giunto in Colchide con i suoi compagni, Giasone dovette superare le prove impostegli da Eeta per conquistare il vello d’oro, ma non sarebbe mai riuscito nell’impresa senza l’aiuto di Medea, figlia di Eeta, innamoratasi perdutamente dell’eroe greco.
D’altronde, Medea era una maga, come lo era Circe, sorella di Eeta al pari di Pasifae, la moglie di Minosse. Si faccia caso alla collocazione simbolica, nell’ambito della geografia antica, delle dimore dei tre fratelli figli del Sole: Pasifae a Creta, la culla di quella civiltà minoica che dal centro dell’Egeo si irradiò nel Mediterraneo e che oggi – si pensi alle ricerche del maggiore studioso della storia dei Greci d’Occidente, Giovanni Pugliese Carratelli – si tende a considerare non più come una civiltà preellenica, ma come la prima fase della storia e della cultura greca (che risulta così “ampliata”, nel tempo e nello spazio, secondo il principio della longue durée); Eeta nella Colchide, al limitare orientale del mondo allora noto ai Greci; Circe in Oriente sul Ponto Eussino (nome antico del Mar Nero), o in Occidente in Italia, ai confini settentrionali della Magna Grecia, dove gli studi hanno attestato autorevolmente presenze minoico-micenee già nell’epoca che Pugliese Carratelli ha definito «precoloniale», antecedente cioè all’inizio della colonizzazione “storica” dell’VIII-VII secolo avanti Cristo.
Non si può, del resto, dimenticare che Strabone attribuisce la fondazione del celebre Heraion, il santuario di Era alla foce del Sele nei pressi di Posidonia-Paestum, proprio a Giasone (Geografia VI 1,1). Quest’ultimo, a detta del grande geografo greco, durante il viaggio di ritorno dalla Colchide, sarebbe sbarcato anche nell’isola di Aithalia (l’isola d’Elba), in una località, identificata con l’odierna Portoferraio, che dalla mitica nave avrebbe preso il nome di Argo («Là infatti sarebbe approdato Giasone, cercando la dimora di Circe perché Medea voleva vedere la dea»); la notizia offre immediatamente il destro a Strabone per affermare che gli antichi miti contengono un nucleo di verità e che Omero rielaborò le «storie così come erano raccontate da molti», in particolare quelle concernenti i viaggi di Odisseo e quelli di Giasone (V 2,6). Da notare il legame stretto stabilito nell’Odissea tra Circe e le figure dell’antico epos argonautico, in particolare Eeta e Giasone, il padre e il marito di Medea, fin dalla comparsa della maga sulla scena: «E arrivammo all’isola Eea: vi abitava/ Circe dai riccioli belli, dea tremenda con voce umana,/ sorella germana di Eeta pericoloso:/ erano nati entrambi dal Sole che dà luce ai mortali/ e da Perse, la madre, che Oceano ebbe per figlia» (X 135-139). Quando Odisseo ritorna dal regno dei morti, collocato a Oriente là dove ogni giorno sorge il Sole, sarà Circe stessa a indicare all’eroe le tappe pericolose del successivo viaggio per Itaca: dopo le Sirene, è la volta delle rupi Erranti: «Solo una nave marina riuscì a superarle,/ Argo, a tutti ben nota, tornando da Eeta./ E quasi scagliavano anche essa sulla gran rupe/ ma Era la dirottò, poiché amava Giasone» (XII 69-72). Sul rapporto tra le due maghe, Circe e Medea, è stato scritto molto, così come sono stati stabiliti importanti confronti anche tra Circe e altre figure delle culture del Vicino Oriente, come Siduri, l’ostessa divina che aiuta l’eroe Gilgameš nel corso del suo viaggio straordinario, la dea babilonese Aja, moglie del Sole, o quella dell’amore Ištar, classico esempio di “Signora degli animali”.
Tornando alla Georgia e alla mostra Il vello d’oro, «l’analisi comparata dei reperti archeologici di natura votiva o rituale con le fonti, scritte e orali, del folklore caucasico – scrive Tiziana D’Acchille a p. 22 del citato saggio Alle origini della cultura occidentale –, ha dimostrato che tra il III millennio e il VI secolo a.C. era diffuso il culto di una dea solare caucasica. La grande quantità di simboli zoomorfi presenti nell’iconografia degli ornamenti reperiti nella Colchide e nell’Iberia durante il II millennio a.C. mostra un intenso legame con la natura e con la ricca fauna del Caucaso: capre selvatiche, leoni, orsi, cervi e aquile. […] Dea della vita e della morte, degli elementi e dello scorrere ciclico del tempo, la Dea Madre Caucasica è associata alla forza vitale e vivificante dei raggi solari e uno dei suoi simboli più arcaici è la svastica, che troviamo rappresentata su pendagli, collane, fibbie e vaghi d’oro».
Probabilmente l’estrazione dell’oro fu iniziata in Georgia già nel IV millennio a.C.; le prime opere esposte in mostra provengono dalle sepolture a tumulo (kurgan) del III-II millennio, che già evidenziano una differenziazione della società in classi, pur all’interno di una cultura nomade o semistanziale, come spiega la D’Acchille. Seguono poi i gioielli e le suppellettili della cultura Trialeti, cosiddetta dal nome di una località nella Georgia orientale, che si sviluppò tra gli inizi e la seconda metà del II millennio: «non ha analoghi nella zona caucasica o dell’Asia Minore – sostiene la curatrice della mostra a p. 23 del catalogo –, ed è una cultura riferita con grande probabilità a una società stanziale i cui membri vivevano […] in piccole città già parzialmente organizzate».
Ma i tesori più emozionanti, lavorati con la tecnica della granulazione e della filigrana e riprodotti splendidamente nel catalogo, provengono dalle tombe di Vani, una località della Colchide abitata continuativamente dall’VIII al I secolo a.C., quando fu completamente distrutta. Doveva essere una «città-santuario», da identificare probabilmente con il santuario di Leucotea di cui parla Strabone (Geografia XI 2,17), come spiegano dettagliatamente nei loro saggi Darejan Kacharava (Il sito di Vani, pp. 29-33 del catalogo) e Piero Spagnesi (Geografia architettonica dell’antica Colchide fino al primo secolo d.C., pp. 35-57).  Kacharava, che da decenni partecipa agli scavi a Vani, di cui è divenuto direttore nel 2002, scrive a p. 31 del suo contributo: «È la scoperta dell’oro di Vani che ha confermato i resoconti degli autori classici Greci e Romani sulla ricchezza d’oro della Colchide». I visitatori della mostra e i lettori del catalogo possono averne una riprova con i gioielli provenienti dalla tomba n. 11, la più ricca di Vani, risalente alla metà del V secolo a.C.: le due collane esposte, una con pendenti a forma di pannocchia e l’altra con pendenti a tartarughe, sono talmente belle da levare il fiato, così come avviene, peraltro, con la collana con pendenti a forma di uccello della tomba n. 6 (inizi del IV secolo a.C.) o con la coppia di anelli da tempia decorati con uccelli e terminazioni a forma di ghianda della tomba n. 24 (fine del IV secolo a.C.). La tomba n. 11 conteneva il corpo di una donna, che doveva appartenere all’élite di Vani: insieme a lei, in posizione subalterna furono sepolti altri tre individui e un cavallo, sempre adornati con gioielli d’oro, anche se di fattura e di valore inferiori. «Le sepolture ritrovate a Vani – spiega Tiziana D’Acchille a p. 27 del suo studio più volte citato – testimoniano l’usanza, fedelmente riportata da Erodoto nella sua lunga e accurata descrizione dei costumi sociali degli Sciti, di sacrificare concubine, schiavi e cavalli insieme con il personaggio di alto rango». Gli Sciti, che si espansero in Colchide e in Iberia dal VII secolo a.C. in avanti, erano stati preceduti da altre popolazioni conquistatrici a partire già dalla metà del II millennio, come gli Ittiti e gli Achemenidi.
La fertilità delle terre collinari georgiane, ricche di acqua e di grandi quantità di oro, attirarono inevitabilmente anche i Greci. Nell’ultimo contributo del catalogo, Nino Lordkipanidze ricorda che, «secondo Omero, il viaggio degli Argonauti deve essersi svolto prima della guerra di Troia, nel periodo Miceneo, tra il XIV e il XII secolo a.C.» (Il vello d’oro, mito o realtà?, pp. 59-62, a p. 59). Pur riconoscendo che non ci sono «prove schiaccianti» di contatti tra la Grecia e la Colchide prima del VII secolo a.C., non si possono escludere «contatti greco-colchici nel periodo miceneo né la nascita del mito in questo periodo (secondo millennio a.C.)» (pp. 61 e 59). Come argomenta il solito Strabone, «la ricchezza della regione della Colchide, che deriva dalle miniere d’oro, d’argento, di rame e di ferro, suggerisce un motivo ragionevole per la spedizione di Giasone» (Geografia I 2,39). Ma dove si sarebbe recato di preciso l’eroe? Alcuni autori classici e bizantini hanno collocato la casa di Eeta e di Medea a Kutaia, sul fiume Fasi, l’odierna Kutaisi, che si trova a nord di Vani, nel centro quindi dell’antica Colchide. Altri scrittori antichi hanno cercato di spiegare razionalmente il mito del vello d’oro. Lo storico Appiano riporta nel II secolo d.C. la notizia di alcuni ruscelli della Colchide «ricchi di polvere d’oro, che gli abitanti raccoglievano attraverso le pelli di pecora, messe a bagno in modo da setacciare le particelle anche più sottili della polvere aurea. Forse il vello d’oro del mitologico re Eeta era di questo genere» (Guerre mitridatiche 103). Secondo Palefato (mitografo del IV secolo a.C., la cui opera Sulle cose incredibili è conosciuta attraverso una compilazione bizantina), la pelle non era in realtà un vello d’oro, ma una pergamena che conteneva la descrizione del procedimento di estrazione dell’oro.
Non si può, infine, non tenere conto che a Dmanisi, in Georgia, negli ultimi venti anni sono stati scoperti diversi resti ossei del più antico ominide finora rinvenuto in Eurasia – una nuova specia denominata Homo georgicus, ritenuta intermedia tra l’Homo abilis e l’Homo erectus – risalenti a circa un milione e ottocentomila anni fa. Un'ulteriore suggestione per ampliare lo scenario oltre i primordi della storia: seguendo il mito del vello d’oro, il viaggio a ritroso ci conduce verso le stesse origini dell'avventura dell'uomo sulla terra.

16 gennaio 2012

Particolare di collana con unguentario, in oro, ametista, turchese e almandino, proveniente da Armaziskhevi, risalente al II secolo d.C. (Museo Nazionale Georgiano)

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