L’Italia civile
contro la barbarie

di Francesco M. Cardarelli
Consiglio Nazionale delle Ricerche

Dalle radici del fascismo ai guasti della Repubblica: il carteggio tra Norberto Bobbio ed Eugenio Garin documenta la fecondità di un dialogo culturale protrattosi per quasi 60 anni e costituisce una preziosa fonte di riflessione sul nostro Paese

Norberto Bobbio – Eugenio Garin, «Della stessa leva». Lettere (1942-1999), a cura di Tiziana Provvidera e Oreste Trabucco, con una premessa di Maurizio Torrini, Torino, Nino Aragno Editore, 2011
Una lettura salutare. Un libro da leggere tutto d’un fiato, ma poi da tenere sul tavolo di lavoro tra i volumi da riprendere e da meditare. Il carteggio tra Norberto Bobbio ed Eugenio Garin, edito di recente per i tipi di Nino Aragno, costituisce un’eccezione nel campo della pubblicazione – attività peraltro meritoria – degli epistolari, opere ponderose solitamente consultate e studiate solo dagli specialisti, interessati a ricostruire le biografie dei corrispondenti e il loro ambiente: storico, culturale, sociale, economico.
Il merito, oltre che dell’editore, è dei curatori dell’opera, Tiziana Provvidera, che insegna Philosophy and Culture of the Italian Renaissance alla John Cabot University di Roma, e Oreste Trabucco, docente di Storia della scienza all’Università «Suor Orsola Benincasa» di Napoli, nonché di Maurizio Torrini, tra i maggiori storici del pensiero filosofico e scientifico dell’Italia moderna, Direttore del «Giornale critico della filosofia italiana» e «custode della memoria gariniana, senza la cui guida affettuosa e severa – scrivono i curatori – questa intrapresa ecdotica non avrebbe avuto né origine né compimento» (p. LXVII).
In effetti, a considerare i soli dati materiali (54 lettere in totale, distribuite nell’arco di ben 57 anni) il carteggio tra Norberto Bobbio ed Eugenio Garin non risulta a prima vista molto consistente e non sembrerebbe l’espressione di un rapporto di amicizia e nemmeno di un vero sodalizio intellettuale. Oltretutto, i due interlocutori – ancorché «della stessa leva», come scrive Bobbio a Garin il 29 giugno 1969 (p. 31), accomunati cioè dallo stesso anno di nascita, il 1909 (curiosamente, saranno poi accomunati anche dallo stesso anno di morte, il 2004) – erano diversi da molti punti di vista. E a leggere il primo scambio epistolare, intercorso durante la guerra, le differenze traspaiono tutte. Bobbio: torinese, di famiglia agiata, appartenente alla cerchia gobettiana (e aderente al Partito d’Azione clandestino), personaggio di punta della casa editrice Einaudi, professore universitario, filosofo del diritto; Garin: fiorentino, con una storia familiare drammatica, studioso isolato e non aderente ad alcun partito, professore di liceo, studioso di storia della filosofia. Anche in seguito, negli anni della maturità e del consolidarsi della fama, le esperienze culturali condivise da Bobbio e Garin furono sostanzialmente esigue: negli anni Cinquanta il progetto neoilluministico, insieme ad altri filosofi come Nicola Abbagnano, Ludovico Geymonat, Mario Dal Pra e Antonio Banfi; successivamente l’Accademia Nazionale dei Lincei, come soci della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, e l’Istituto della Enciclopedia Italiana, come membri del Consiglio scientifico.
Dunque, tenendo conto del fatto che di Garin era uscito solo il carteggio con il suo maestro Ludovico Limentani (nel 2007) – mentre di Bobbio, oltre a quello con il maestro Gioele Solari (2000), erano stati pubblicati anche gli epistolari con Paolo Farneti (2000), con Ferruccio Rossi-Landi (2004-2005) e con Giuseppe Tamburrano (2007), oltre a specifiche sillogi epistolari tematiche (ma nel 2012 è stato dato alle stampe anche il carteggio con Aldo Capitini) – perché impegnarsi in «una fatica pluriennale» (p. LXVII) nel cercare di ricostruire e analizzare gli scambi di missive di due intellettuali, certamente grandi – anzi i più grandi dell’Italia del secondo Novecento nei rispettivi campi (la storia della filosofia e la cultura del Rinascimento per l’uno; la filosofia del diritto e la filosofia della politica per l’altro) – ma il cui rapporto epistolare non si preannunciava particolarmente significativo? Non si rischiava di compiere un’operazione culturale di pura erudizione, magari sostanzialmente poco utile?
In realtà, l’impresa si è dimostrata più che utile: necessaria. Il merito principale dei promotori dell’iniziativa è stato quello di comprendere per tempo che quelle scarne missive, a saperle leggere bene, potevano dire molto. I curatori sono riusciti a individuare il “sottotesto” sotteso a ciascun documento e a ricostruire in modo efficace «quel serrato dialogo documentato dall’appendice di testi» posti «a commento del carteggio di quei due eccezionali coetanei – come scrive Maurizio Torrini nella bella premessa al volume –. Sì che se ne trae l’impressione che, invece di puntare sul dialogo diretto, i due interlocutori affidassero piuttosto alla recensione, al saggio, alla considerazione scritta, i giudizi, gli spunti, le precisazioni che gli scritti dell’uno suggerivano all’altro. Tant’è che non è raro che la lettera serva a chiarire il senso di uno scritto, a precisare il significato di una frase, a correggere una citazione» (p. IX).
Il carteggio, da considerarsi un tutt’uno con i testi in appendice che fanno da contrappunto, come un complesso organico, si rivela così un’importante fonte documentaria per gli specialisti di Bobbio e di Garin e una preziosa occasione di riflessione sul nostro Paese.
Il colloquio tra i due entra nel vivo intorno alla metà degli anni Cinquanta, quando, divenuti colleghi universitari a tutti gli effetti, passano dal lei al tu (ma continueranno a chiamarsi sempre per cognome). Sono gli anni della scelta neoilluminista, ma il dialogo “decolla” con la pubblicazione nel 1955 delle famose Cronache di filosofia italiana di Garin. Scrive a caldo Bobbio su «Belfagor»: «È un libro che mi piace molto. E oggettivamente credo che sia un libro molto importante. È in sostanza un vero e proprio esame di coscienza di una generazione, che è poi la mia stessa generazione (Garin ed io siamo coetanei), di quella generazione che è diventata adulta col fascismo […]. Questo libro suscita in me il desiderio di una discussione, di un colloquio» (p. 113). Più tardi, su «Cultura moderna» parla di «un libro estremamente salutare, di cui gli [a Garin] siamo grati» (p. 114). «Direi – prosegue – che tutto il libro è un lungo e continuato omaggio a Croce, omaggio non servile ma egualmente fervido e devoto, non cieco, anzi aperto alla critica e al riconoscimento delle colpe e degli errori, ed esprime il sentimento di gratitudine della generazione (a cui appartengo e per questo mi associo all’omaggio) che si avviò agli studi quando il regno delle tenebre e del silenzio era incominciato» (p. 116).
Non si sottovalutino le parole di Bobbio: si può forse far risalire a quel torno di tempo l’inizio di un’amicizia intellettuale, di un reciproco “riconoscimento” tra i due interlocutori. Infatti, nello stesso 1955 viene pubblicato anche il celebre Politica e cultura di Bobbio, a proposito del quale Garin così si rivolge al pensatore torinese il 12 ottobre: «Ho ricevuto il tuo libro, e ho riletto i tuoi saggi riuniti, con profondo consenso, e con una simpatia continua per quel che dicevi, e con sincero vivo apprezzamento per la fermezza con cui lo dicevi. E grazie anche di questo!» (p. 24). Si noti l’uso del termine «simpatia», ricco di suggestioni e di implicazioni filosofiche di ampia portata. D’altronde, come affermò Bobbio nel 1961, ricordando Luigi Russo, «io ho sempre cercato nell’amicizia più un’integrazione, un complemento, che una comunanza». Quelle parole di Bobbio, scrive giustamente Oreste Trabucco nel denso, colto, illuminante saggio introduttivo al carteggio, «sono le più idonee a definire il sessantennale dialogo con Garin, nelle pagine a stampa, nelle carte private: quando non vi sia “comunanza”, e i due interlocutori rifuggono il flebile consenso di superficie, è però in entrambi costante la ricerca di “integrazione”, di “complemento”, del proprio pensiero, del proprio impegno» (p. XXVIII).
Il 7 agosto 1962, recensendo su «Paese Sera-Libri» il nuovo libro di Garin, La cultura italiana tra ’800 e ’900 – che comprende anche Quindici anni dopo, il saggio che continuava (e concludeva) le Cronache di filosofia italiana – Bobbio, dopo aver definito «anche il nuovo libro […] una resa dei conti, un bilancio del passato per capire il presente, un dialogo aperto ma senza indulgenze coi diversamente pensanti», e aver dato, quasi en passant, una bella definizione del metodo critico gariniano («uno storicismo riconciliato con il sapere scientifico. Storicismo positivo?») afferma: «Poche sono le persone della mia generazione con le quali mi senta di condividere tanti giudizi come con Garin: prima di ogni altra cosa, l’atteggiamento verso Croce. Si potrebbe, credo, tracciare la storia della nostra formazione intellettuale come progressiva liberazione da Croce. Eppure non l’abbiamo mai ripudiato» (pp. 120-121).
Non sarà un caso allora che dodici anni più tardi, nel 1974, pubblicando sulla rivista «Il Ponte» il discorso tenuto a Firenze durante la presentazione del nuovo libro di Garin Intellettuali italiani del XX secolo, Bobbio lo intitolerà Le colpe dei padri, prendendo a prestito una frase utilizzata da Garin riferendosi a Delio Cantimori e al suo rapporto con il fascismo. E non si può non ricordare che nel 1984, l’anno del suo congedo definitivo dall’università e della nomina a senatore a vita, Bobbio deciderà di porre proprio questo discorso come saggio di apertura del suo volume Maestri e compagni, il secondo della tetralogia inaugurata da Italia civile.
In un certo senso, Garin non fu da meno: il suo discorso pronunciato a Torino nel 1984 in occasione dei 75 anni di Bobbio fu pubblicato nel 1986 con il titolo Politica e cultura. Dove, pur nel quadro di una ricostruzione storiografica acutissima della discussione nata intorno ai due termini del confronto, appunto «politica» e «cultura», è evidente l’omaggio all’amico. Omaggio o rispecchiamento? A proposito del libro di Bobbio del 1955, Garin scrive: «Era un invito al dialogo che poteva, a volte, ricordare certi temi cari a Calogero. Era un invito, valido sempre, alla ragione e alla ragionevolezza. Nel suo pacato rivolgersi a Togliatti o a Bianchi Bandinelli e agli amici comunisti, nel colloquio ideale con Croce, nella consapevolezza di tutto quello che stava accadendo nel mondo, quel ‘saggio’ Einaudi […] costituì un punto di riferimento con un significato che oltrepassava la situazione nazionale» (p. 145).
Con Il nostro Croce, il contributo scritto da Bobbio nel 1989 in occasione degli 80 anni di Garin, uscito nel 1991, il riconoscimento di un «comune sentire» tra i due vecchi filosofi diviene esplicito, a tutto tondo. Riportando il giudizio di Garin sulla Storia d’Italia dal 1871 al 1915 – «fu uno dei libri da noi più amati e da cui abbiamo tratto un giorno maggior luce e conforto» – Bobbio apporta la seguente chiosa: «dove mi piace vedere in quel “noi” non un plurale maiestatico ma il riferimento a una intera generazione, in cui mi riconosco». «Sta di fatto – continua Bobbio – che, oltre al comune sentire [il corsivo è mio] circa il modo d’intendere la filosofia e l’ufficio suo nella società, mi pare che al “nostro Croce” appartenga anche un determinato modo d’intendere il rapporto fra storia delle idee e storia dei fatti, e conseguentemente tra impegno intellettuale e impegno pratico […], di reciproca indipendenza ma non di reciproca indifferenza» (p. 181). E poi: «Croce è stato un grande moralista […]. Questo è stato sopra ogni altro il “mio” Croce. […] Parlo di moralista nel senso forte della parola, di chi crede per intima convinzione che in ultima istanza siano le forze morali che guidano la storia e ne trae la conseguenza che sia sommo ufficio di ogni uomo, non importa se dotto o indotto, di dare la propria opera per farle prevalere» (pp. 186-187).
Gli fa eco Garin in una lettera del 9 maggio 1991: «Carissimo Bobbio, leggo su “l’Unità” l’anticipazione delle tue pagine sulla mia ‘lettura’ di Croce. Le leggo un po’ commosso […]. Spesso, quando ripenso a queste cose e, come capita ai vecchi, ci vado rimuginando sopra, m’avviene di domandarmi che cosa penseresti tu. Ieri, leggendo “La Stampa”, avevo consentito con te, dalla prima all’ultima parola – anche se tutta questa vicenda mi riempie di una tristezza a volte angosciosa» (p. 62; l’articolo di Bobbio parlava del coinvolgimento del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga nell’operazione «Gladio»). Il 21 maggio, Garin risponde così alla lettera di Bobbio, alla quale l’anziano filosofo aveva allegato La disfatta, uno scritto rimasto inedito perché troppo cupo: «grazie delle tue pagine – grazie di cuore. Nei momenti di maggiore sconforto è di conforto non sentirsi soli, e incontrarsi con chi sa dare la forma che vorremmo a quello che proviamo» (p. 64). Sei mesi più tardi, il 10 novembre 1991, Garin scrive: «Caro Bobbio, in questi giorni gli amici mi hanno portato la raccolta di studi per i miei 80 anni. Il primo che ho letto è stato il tuo e, ti confesso, non senza commozione. Ti sono grato per le cose che hai colto l’occasione per dire. Abbiamo vissuto gli stessi anni, e non sono stati – e non sono – anni facili. Trovarmi tanto spesso d’accordo con te mi è stato di conforto e di aiuto – e anche di questo ti ringrazio» (p. 65).
Alla luce di questi documenti, risultano anche ridimensionate le divergenze tra Bobbio e Garin circa l’esistenza o meno di una cultura fascista, che pure avevano animato il dibattito culturale e politico italiano negli anni Settanta. Negli ultimi tempi, i due interlocutori non sembrano più insistere troppo sulle differenze di vedute. Nell’«Avvertenza» del 1996 alla terza edizione di Intellettuali italiani del XX secolo, l’articolo di Bobbio Le colpe dei padri è citato in apertura (si ricordi che negli scritti di Garin ogni singola parola è controllata e calibrata e le citazioni non sono mai casuali) – insieme a un saggio di Giorgio Amendola – ma senza alcun riferimento alla tesi dell’inesistenza di una cultura fascista tra il 1935 e il 1945, a lungo argomentata da Bobbio nell’articolo in questione. Non che Garin avesse cambiato opinione sull’argomento: ma forse, con l’avanzare della vecchiaia, le esigenze della «comunanza» di pensiero, a cui si è fatto cenno sopra, erano divenute più stringenti, sotto il velo di un’amarezza e di uno sconforto dominanti, quasi assoluti. «Ti cerco sempre – si legge in una lettera di Garin a Bobbio del 18 dicembre 1995 – e ti leggo con conforto, perfino quando non sono del tutto d’accordo (ma avrei preferito essermene andato prima di questo periodo spesso disgustoso)» (p. 68).
Nella sua Autobiografia, uscita a stampa nel 1997, Bobbio tratta a lungo nelle pagine iniziali la questione della lettera indirizzata a Mussolini nel 1935, apparsa sui giornali nel 1992 per screditare la cultura di derivazione azionista. In quella lettera, come è noto, Bobbio fa professione di fede fascista per essere riammesso a un concorso universitario – che poi vincerà – dopo essere stato escluso per la sua vicinanza a Giustizia e Libertà. Come nel resto dell’Autobiografia, le parole di Bobbio sono intervallate da resoconti cronachistici e storici in terza persona, stampati in un corpo minore, scritti probabilmente dal curatore del volume, ma in ultima istanza attribuibili allo stesso autore dell’Autobiografia. Nel resoconto degli intellettuali intervenuti all’epoca sulla questione, il primo nome citato è quello di Eugenio Garin, il quale, in un’intervista sul quotidiano «La Repubblica» del 16 giugno 1992 intitolata «Macché scandalo, è un pezzo di storia», giustifica il comportamento di Bobbio sostenendo che, sotto il fascismo, era impossibile esercitare un'attività culturale senza mentire, senza mettersi in maschera, come diceva Cartesio: larvatus prodeo. Paradossalmente, dunque, Bobbio cita Garin, che lo "assolve" in base alla sua nota tesi che tutta la cultura del Ventennio risentì della presenza del fascismo: «Era il tentativo di legittima difesa, l'unico margine che ti lasciava un'impresa irta di difficoltà quotidiane, com'è quella di vivere sotto una dittatura» (p. 189).
Al testo autobiografico bobbiano fa riscontro nello stesso anno uno degli ultimi scritti di Garin, Intervista sull’intellettuale, dai forti risvolti autobiografici, che si apre emblematicamente citando i nomi di Gobetti e di Bobbio. Nella recensione per «L’Indice dei libri del mese», intitolata Più Gramsci che Gobetti, Bobbio scrive che «le affinità elettive e la comunanza di opinioni fra Garin e me, nonostante la disparità dei nostri studi, sono molte, e non sono mancate occasioni per riscontrarle»; sul ruolo degli intellettuali attribuisce a Garin un maggiore debito nei confronti di Gramsci rispetto a Gobetti, «mentre – precisa – se dovessi parlare di me, dovrei dire più Gobetti che Gramsci» (p. 193). La recensione permette a Garin di scrivere una nuova pagina del dialogo a distanza. «Quello che dici con tanta finezza – si legge nella lettera a Bobbio datata 25 settembre 1997 – mi ha sinceramente commosso per come indichi, con i tanti motivi del nostro consenso, i temi delle nostre discussioni e delle nostre diverse maniere di vedere e di reagire. Non abbiamo solo la stessa età. Abbiamo vissuto la stessa vicenda per scopi che alla fine convergevano, sentendoci vicini nella sostanza anche quando discutevamo. Ora che sono alla fine leggere queste tue parole mi è stato di grande conforto: era il dialogo che continuava. Grazie ancora, di cuore» (p. 71).
Nell’ultimo scambio epistolare, che risale alla seconda decade del maggio 1999 (pp. 76-77) – pochi giorni dopo che, in un'intervista intitolata «Caro Bobbio, io non credo alla guerra giusta» («L'Unità», 1° maggio), Garin aveva dichiarato il suo garbato dissenso rispetto alle tesi bobbiane riguardo alla guerra nei Balcani –, la fine imminente del secolo e l’amarezza per le sorti del Paese si intrecciano al declino fisico e al lutto personale (Garin aveva perso da pochi mesi la moglie, compagna di una vita). Scrive Bobbio il 15 maggio: «Il “nostro” tragico secolo non poteva finire più tragicamente. Nessuna speranza che il prossimo sia migliore. Nel ricordo della tua cara Maria, ti abbraccio insieme con Valeria affettuosamente». Gli risponde l’amico il 19 maggio: «Ti sono profondamente grato. Mi capita spesso di pensare a te, e di riprendere in mano cose tue, riavviando una sorta di dialogo. Come puoi immaginare la perdita di Maria mi ha distrutto. Avevo proprio sperato di essere il primo, e invece… faccio uno sforzo continuo per tirare avanti, ma non è facile. Il ricordo non aiuta».
In conclusione, «che senso ha oggi pubblicare il dialogo a distanza tra Norberto Bobbio ed Eugenio Garin, uomini che appartengono a un secolo […] ormai trascorso e all’apparenza del tutto avulso dalla società contemporanea»? La domanda, posta da Tiziana Provvidera nella postilla finale al volume, è sicuramente opportuna, così come è efficace la risposta: «ciò che oggi ci spinge maggiormente a riflettere è il monito, l’avvertimento che, più o meno esplicitamente, essi consegnano ai posteri. Nelle loro parole, infatti, si intravede sempre un avversario comune: la Barbarie» (p. 217). È un giudizio che si può condividere pienamente.

24 ottobre 2012

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