Perché occorre ripensare
il ruolo chiave dell’educazione
nella società della conoscenza

di Rosa Maria Bottino
Direttore dell’Istituto per le Tecnologie Didattiche del CNR

Partendo da un libro sul web 3.0, si traccia una panoramica dei cambiamenti profondi determinati dalla progressiva integrazione delle nuove tecnologie nel sistema scolastico, con la finalità di sviluppare le competenze adatte al XXI secolo

L’intervento di Rosa Maria Bottino, pubblicato a fianco in versione integrale, è stato predisposto per la presentazione del volume Amplifichiamoci. L’individualismo 3.0, di Massimo Bartoccioli e Mimì De Maio (Edizioni Unicopli, 2012), che si è tenuta lo scorso 19 giugno a Roma, presso la Biblioteca Centrale «Guglielmo Marconi» del Consiglio Nazionale delle Ricerche, nell’ambito delle manifestazioni celebrative per il Novantennale dell'Ente.

Il libro Amplifichiamoci. L’individualismo 3.0 di Massimo Bartoccioli e Mimì De Maio (Edizioni Unicopli, 2012), in una sorta di dialogo a due voci, ragiona sulla rete come opportunità: da un lato, un’analisi del significato della sua comparsa e del suo uso nel mondo contemporaneo (suggerendone un’interpretazione che è anche storica e filosofica), e, dall’altro, la descrizione entusiasta delle sue potenzialità sul piano espressivo, comunicativo, politico, economico, da parte di un giovane che ne ha sperimentate alcune in prima persona. Il concetto che si vuole trasmettere è quello di rete (e in senso più ampio di tecnologia digitale) come parte ormai imprescindibile della vita attuale che amplifica le nostre possibilità (dico nostre perché a mio avviso è ormai uno strumento che può amplificare le possibilità di tutti, non solo dei nativi digitali – pensate, ad esempio, al nonno che, tramite la rete è in contatto con i nipoti lontani).
Il concetto di amplificazione ci rimanda a quello di strumento perfettamente integrato nella realtà, uno strumento, però, del tutto particolare perché presenta dinamicamente “affordances” sempre nuove man mano che lo si usa, cioè qualità/opportunità che suggeriscono agli utenti (tutti noi) sempre nuove azioni per manipolarlo.
Seguendo la traccia del concetto di amplificazione nel libro sono descritti esempi sulla fenomenologia di tale concetto che parte dagli assunti della partecipazione ma anche di autenticità, della possibilità offerta di essere protagonisti, se ci si mette del proprio: quindi, la rete come strumento che ti permette di esprimerti come artista, di far parte di forme nuove di aggregazione e di espressione sociale (pensiamo, ad esempio, alle capacità di auto-organizzazione nel web come i flash-mob) ma anche, e di conseguenza, di marketing. Capacità che richiedono anche una qual forma di verità ed autenticità per poter essere davvero parte di attività di processi di co-creazione.
Quindi, dalla rete come grande contenitore di informazioni (1.0) alla rete come luogo bidirezionale ed interattivo (2.0) fino ad arrivare a quello che si annuncia come web 3.0, di cui si parla già da un po’, ma i cui contorni sono ancora non precisamente definiti, perché si può leggere come più cose in una: aggregatore di dati, web semantico, web 3D, web geospaziale, web integrato con le potenzialità dell’intelligenza artificiale, ecc. Ma, se molte di queste caratteristiche già esistono (si pensi alle informazioni che ci vengono veicolate selezionandole in modo conforme ad un’interpretazione di quelli che sono i nostri interessi e i nostri gusti, in base alle azioni che abbiamo già fatto in rete), gli autori ci propongono l’idea di web 3.0 come divenire comune co-costruito, un ambiente di “co-creazione collettiva”.
È chiaro che tante opportunità suscitano entusiasmo ed è giusto che sia così soprattutto da parte di giovani intelligenti e curiosi che vedono e sperimentano le nuove opportunità offerte da tutto ciò.
Tuttavia, l’idea di amplificazione assunta dal libro come filo conduttore e quella di web 3.0 come ambiente di co-creazione collettiva, seppur affascinanti, mi fanno riflettere sui concetti, in qualche modo legati, di consapevolezza e di responsabilità e, in ultima analisi, sul come si possa evolvere l’idea di educazione nella società della conoscenza.
Si può trarre spunto da un caso ampiamente dibattuto dai media: quello che è stato innescato dal libro di Nicholas Carr Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello (Raffaello Cortina, 2011), in cui si affrontavano le possibili declinazioni della domanda, solo apparentemente grossolana, «internet ci rende stupidi?». In questo libro Carr metteva in guardia su alcune possibili problematiche legate all’uso della rete (ad esempio, il decadere della capacità di concentrarsi a lungo e di pensare in modo approfondito e analitico). Howard Rheingold, in un libro che, in qualche modo, si può leggere come la risposta al libro di Carr (Perché la rete ci rende intelligenti, Raffaello Cortina, 2013), sostiene che si può essere “net smart”, cioè prosperare (“thrive”, in inglese) in rete se si conosce bene che cosa si ha disposizione e se si impara a muoversi consapevolmente per usare la rete a proprio beneficio invece di esserne usati. E dà alcune raccomandazioni: ad esempio, esercitare un controllo cosciente sulla propria attenzione, verificare le informazioni triangolando più fonti, esplicitare i propri obiettivi, verificandoli spesso, e così via. Tuttavia, non è affatto scontato che un equilibrato buon senso sia in questo caso la dote più preziosa.
Bisogna, infatti, interrogarsi su come formare l’individuo cosciente e responsabile di cui si parla nel libro di Rheingold, l’individuo che si assume la responsabilità di darsi obiettivi e di monitorare, di conseguenza, la sua azione.
Ed è qui che si ha la frattura forse maggiore fra nativo digitale e adulto immigrato digitale (per usare i termini di Marc Prensky): gli immigrati digitali sono stati educati in un ambiente sociale e in un sistema educativo che si sta rapidamente modificando e sono arrivati alla rete dall’esterno, facendo riferimento a strumenti concettuali che si sono sviluppati altrove. C’è, quindi, bisogno di interrogarsi sulle forme di soggettività indotte dalla nuove pratiche comunicative e partecipative offerte dalla rete. Ad esempio, ci sarà ancora una chiara distinzione fra costruzione personale del sapere e sapere distribuito nella rete? Fra apprendimento formale ed informale? Fra processi di insegnamento e apprendimento confinati in precisi canoni temporali e luoghi fisici e processi di educazione permanente? Per rispondere a queste domande non basta il buon senso perché esso è tale in quanto riepiloga l’esperienza passata e qui la sfida è immaginare un futuro con strumenti per cui non si è sedimentato il buon senso.
Quindi, dobbiamo necessariamente guardare alla società della conoscenza come a una stretta interrelazione fra relazioni sociali, educazione e tecnologia in cui l’educazione ha un ruolo assolutamente chiave che va ripensato complessivamente. Del resto, sempre di più assistiamo alle difficoltà del sistema educativo ad integrarsi con i processi che hanno luogo nella vita degli studenti.
La scuola, ad esempio, sembra spesso assimilare una visione riduttiva che vede la tecnologia come un aiuto a risolvere specifici problemi o come fattore di modernizzazione o come agente motivazionale e non come un fattore che può penetrare nella dimensione cognitiva trasformando in profondità ciò che si apprende, come lo si apprende e la qualità dell’apprendimento. L’insegnante è ancora, prevalentemente, visto come attore singolo piuttosto che come membro di una comunità professionale connessa che diventa luogo di costruzione, di crescita e di conservazione del sapere didattico della comunità stessa. Il modello di apprendimento su cui si basano i sistemi educativi attuali, legato all’accumulo di contenuti e competenze, è tradizionalmente perseguito attraverso metodologie e percorsi che risultano oggi insufficienti. Ovviamente, non basta dotare le scuole di attrezzature e strumenti tecnologici (anche se molte scuole non ne sono sufficientemente dotate e, ancora adesso, si promuovono iniziative per immettere tecnologie nelle classi).
Cresce il bisogno di dare a tutti gli studenti metodi, strumenti e abilità che li mettano in grado di rapportarsi efficacemente con una società sempre più accelerata e complessa a cui le tecnologie digitali, la globalizzazione delle relazioni, lo sviluppo scientifico, il crescere dei flussi migratori, le trasformazioni delle strutture familiari e dei comportamenti sociali, per citare solo alcuni dei fattori principali, pongono nuove sfide e necessità.
Mentre gli sviluppi tecnologici e la rete internet rendono possibile accedere a una grande mole di informazioni e conoscenza, l’accento si pone in misura sempre crescente sulla necessità di sviluppare capacità e competenze che possano essere applicate in situazioni e discipline diverse e che siano legate alla capacità di continuare ad imparare lungo tutto il corso dell’esistenza (“lifelong learning”), così come è stato messo in evidenza anche a livello comunitario nell’Agenda Digitale per l’Europa, uno dei sette “pilastri” della strategia di Europa 2020.
Se si vuole, quindi, interpretare il concetto di amplificatore della rete e delle nuove tecnologie in senso educativo, occorre studiare (attraverso metodologie sia qualitative che quantitative) i diversi ruoli di amplificazione che hanno la rete e le tecnologie educative e analizzarne le diverse declinazioni: amplificazione cognitiva, collaborativa, informativa, comunicativa ed espressiva, amplificazione delle risorse, delle opportunità di inclusione ed integrazione educativa, ecc.
In questo panorama articolato e complesso si colloca il settore di ricerca delle Tecnologie Didattiche che si pone l’obiettivo di studiare e analizzare il ruolo che le nuove tecnologie possono avere nell’innovazione dei processi di insegnamento e apprendimento.
Il fuoco è, però, sempre, l’educazione e non la tecnologia. Infatti, innovazione pedagogica e innovazione tecnologia devono procedere in modo non disgiunto: da un lato, infatti, ha scarso valore pedagogico rendere disponibili strumenti nuovi se non si trasformano le strategie educative e le attività in cui chi insegna e chi apprende sono coinvolti. Dall’altro, l’innovazione pedagogica deve basarsi su un’analisi delle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie e su come queste cambino sostanzialmente, in modo diretto o indiretto, i bisogni, le modalità e i contenuti stessi delle attività di apprendimento e di insegnamento.
Parlo qui di ricerca in tecnologie didattiche non solo per dovere d’ufficio, per così dire (lavoro in un istituto che si occupa appunto di tecnologie educative), ma per sottolineare il ruolo cruciale della ricerca in questo settore per il futuro (ormai riconosciuto a livello internazionale ed europeo) e in cui, in Italia, il CNR ha avuto un ruolo chiave e lungimirante istituendo negli anni 70 il primo e, ad oggi, l’unico istituto di ricerca pubblico nel settore. La ricerca in tecnologie didattiche si contraddistingue sia come ricerca di base sia come ricerca applicata con una forte caratterizzazione interdisciplinare. Vi si integrano, infatti, assumendovi una connotazione specifica ed autonoma, contributi e modelli sviluppati in diverse discipline, quali le scienze dell’informazione (non solo nei suoi aspetti tecnologici), la pedagogia, le scienze cognitive, la didattica delle diverse discipline curriculari.
La relazione fra ricerca di base e ricerca tecnica e strumentale ha carattere interdipendente. Da una parte, infatti, la comprensione dei processi di apprendimento è alla base della progettazione di migliori strumenti ed ambienti per l’apprendimento. Dall’altra, lo sviluppo di strumenti computazionali crea nuove modalità di apprendimento e consente anche di indagare nuove problematiche di base.
Gli aspetti di elaborazione concettuale, di conseguenza, sono spesso intrecciati con lo sviluppo di prototipi (ambienti didattici interattivi, ambienti per la comunicazione e la collaborazione, dispositivi tangibili per l’uso educativo, ecc.) e con la loro sperimentazione sul campo. Le sperimentazioni, avendo per oggetto processi educativi, hanno usualmente un’estensione temporale prolungata, richiedono modelli per l’elaborazione dei dati e dei risultati ed hanno anche una forte componente di trasferimento.
La ricerca in tecnologie didattiche (in Europa spesso identificate coll’espressione “Technology Enhanced Learning”) ha messo in luce che la tecnologia può costituire una importante risorsa per la qualità dei processi di apprendimento/insegnamento (sia per gli specifici apprendimenti concettuali che per l’acquisizione di competenze cognitive di tipo trasversale).
È però anche vero che la ricerca ha messo anche in luce come sia di scarso valore pedagogico rendere disponibile la tecnologia se le strategie educative, gli obiettivi, le attività didattiche e i ruoli che in esse hanno docenti e studenti, così come i contenuti stessi, non cambiano; se, cioè, la tecnologia è introdotta come un’aggiunta in classi e contesti scolastici sostanzialmente immutati.
Questo vale a maggior ragione quando si richiedono cambiamenti a livello dell’intero sistema educativo. Infatti, anche se si hanno risposte incoraggianti da ricerche innovative, quando si scala a livello di sistema questi risultati non sempre si ripetono.
L’innovazione su larga scala può avvenire solo se il cambiamento tocca l’intero sistema educativo. Quindi, la tecnologia digitale potrà portare a miglioramenti nei processi di insegnamento/apprendimento solo a patto che in parallelo evolva tutta la scuola. Recentemente, Alan Collins ha sostenuto che la rivoluzione informatica ha inciso poco finora sulla scuola nel suo complesso perché il sistema educativo - come lo conosciamo - si è sviluppato in risposta alle esigenze di un’altra rivoluzione, quella industriale.
A sostegno della sua tesi Collins analizza una serie di contrapposizioni tra cultura scolastica e cultura informatica. Qui mi limito a citarne due che ben si attagliano ai temi trattati dal libro. Docente come esperto versus pluralità delle fonti di conoscenza. La scuola è costruita sull'idea che il sapere è fisso e che il lavoro del docente è quello di presentare agli studenti ciò che è noto. Il libro stampato è il cardine di questa costruzione. Gli insegnanti fungono da esperti il cui compito è quello di trasmettere le loro competenze agli studenti. Quindi, alla maggior parte degli insegnanti non piace vedere la loro autorità contestata da studenti che trovano informazioni che li contraddicono o che fanno domande al di là della loro competenza. Al contrario, le tecnologie dell'informazione consentono di accedere a diverse fonti di conoscenza. È facile trovare attività, come le comunità web o forum di discussione online, dove gli studenti stessi possono avere il ruolo di esperti o possono sviluppare conoscenze per sfidare le opinioni prevalenti. Le scuole hanno difficoltà a separare in modo simile la competenza dall'autorità.
La conoscenza nella propria testa versus conoscenza distribuita tra persone e risorse esterne. C'è una convinzione profonda tra insegnanti e genitori: per imparare veramente qualcosa è fondamentale interiorizzarla senza alcun ricorso a risorse esterne. Pertanto, ad esempio, agli esami gli studenti non sono autorizzati a utilizzare libri, calcolatrici, computer e tanto meno il web. Nel mondo della tecnologia dell'informazione, la misura della conoscenza è piuttosto su come e dove trovare risorse rilevanti e sul come integrarle e organizzarle. Del resto, anche sul posto di lavoro, si è spesso giudicati da come si sanno mobilitare risorse per compiere alcune operazioni. Le tecnologie dell'informazione, quali i social network, Google o i navigatori satellitari, forniscono un chiaro esempio di come la cognizione sia distribuita tra le persone e le risorse a loro disposizione.
È necessario prendere atto che l’integrazione delle nuove tecnologie nella scuola porterà a cambiamenti profondi poiché:

  • l'apprendimento reso possibile dallo sviluppo delle TIC (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione) diventerà sempre più personalizzato, collaborativo e informale; i metodi di insegnamento tradizionali, basati su modelli trasmissivi e standardizzati, lasceranno spazio a forme di insegnamento più flessibili, basate sulla sperimentazione e orientate a supportare lo studente nello sviluppo di competenze trasversali;
  • all’interno di nuovi paradigmi di apprendimento centrati sullo studente e resi possibili dallo sviluppo delle tecnologie, gli insegnanti dovranno svolgere un ruolo di guida, predisponendo un ambiente in cui lo studente può apprendere (con e dagli altri) secondo modalità che meglio si adattano alle sue personali esigenze, preferenze e strategie;
  • mentre, concettualmente, lo studente assumerà una posizione centrale nel processo di apprendimento, spetterà agli insegnanti promuovere l'individualità, la personalizzazione e “l'auto-creazione” del processo di apprendimento. Cioè, fornendo agli studenti i mezzi, le indicazioni e il supporto necessario per accrescere e sviluppare le proprie capacità.

Per sostenere questo cambiamento, è necessario adottare approcci didattici, sia all’interno delle singole discipline che attraverso attività interdisciplinari, basati sull’apprendimento attivo ed esperienziale e volti allo sviluppo anche di competenze e attitudini trasversali che non appartengono alle singole discipline. Queste “competenze per il XXI secolo” (collaborazione, comunicazione, pensiero critico, “problem solving”, autonomia, flessibilità, indagine e ricerca…) sono necessarie per continuare ad apprendere lungo tutto l’arco della vita.

2 luglio 2013

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